La villa dei mosaici di Negrar di Valpolicella

Evento di SAP società archeologica srl

Museo Archeologico Nazionale di Verona

Pubblico  · Chiunque su Facebook o fuori Facebook

Vieni a scoprire *in anteprima* gli ultimi eccezionali ritrovamenti della ‘Villa dei Mosaici’ a Negrar di Valpolicella!

Quando: 25 maggio, alle ore 16

Dove: presso il Museo Archeologico Nazionale di Verona (Stradone S. Tomaso 3, Verona)

Verranno presentate le ultime novità archeologiche e verrà svelata la pianta della villa. Dulcis in fundo… degustazione di vini della Valpolicella!

Saranno presenti:
Giovanna Falezza – Direttrice Museo Archeologico Nazionale di Verona
Vincenzo Tiné – Soprintendente Soprintendenza Abap Verona
Roberto Grison – Sindaco del Comune di Negrar di Valpolicella
Gianni de Zuccato – Funzionario Soprintendenza Abap Verona
Patrizia Basso – Professoressa del Dipartimento di Culture e Civiltà – Università di Verona
Massimiliano Valdinoci – ABAVerona – Accademia di Belle Arti di Verona

Ti aspettiamo!

  1. Il vino.

Finché nella Roma antica durò il regime alimentare lacto-vegetariano, la consumazione del vino rimase limitata. I soli vini di qualità erano quelli greci importati che avevano un costo piuttosto elevato.

Naturalmente anche allora i Romani conoscevano la vigna, ma sotto forme selvatiche o semiselvatiche, sicché il primo succo ricavato dai vigneti situati presso le paludi del Lazio o sulle colline circostanti doveva essere assai acido[1]. Cinea, l’ambasciatore di Pirro, che era andato a Roma nel 279 a.C. per negoziare la pace, si faceva beffe del vino agro dei colli Albani (Plinio, N.H. XIV, 12). Il miglioramento della produzione italica dipese da tre fattori d’influenza greca: l’alimentazione delle nuove piante selezionate, il perfezionamento della tecnica della vinificazione e l’impiego di nuovi procedimenti atti a conservare il vino. Pianta generosa, piena di sole, la vite era posta sotto il segno di Giove e le vendemmie si intraprendevano secondo riti rigorosi presiedute dal flamen Dialis, il sacerdote di Giove.

La bevanda ricavata dall’uva con il mistero della sua fermentazione aveva un carattere sacro. Al principio tuttavia non era adoperata per le libagioni[2]. Esistevano inoltre riguardo al vino interdizioni e tabù. Se si deve credere agli autori antichi, gli uomini non ne potevano bere prima di aver compiuto i trent’anni e per le donne [3]vigeva lo ius osculi (il diritto al bacio) consentiva al marito di verificare con un bacio sulla bocca se la moglie aveva trasgredito a quest’ordine. Di conseguenza era interdetta alle donne anche la custodia della cantina. Col tempo tuttavia questa proibizione non fu più così rigorosamente rispettata e forse fin da allora riguardava solo certi vini a forte gradazione alcolica. Questo carattere sacro e rituale del vino si è poi perpetuato nella religione cristiana in cui, al momento della consacrazione della messa, il mistero dell’ultima cena si rinnova nell’atto dell’elevazione del calice contenente vino che viene ogni volta trasformato nel sangue di Cristo.

Abituati come siamo ai nostri attuali vini, difficilmente possiamo farci un’idea di come fossero i vini nell’antichità. Ci risulta che i Romani conoscevano il vino rosso, che essi però chiamavano nero (vinum atrum) e il vino bianco (candidum). Sapevano inoltre trasformare il vino rosso in bianco mettendovi farina di fave o tre bianchi d’uovo oppure ricorrendo alla cenere di una vigna di uva bianca, come tramanda Apicio (De re coq. I, V, vinum ex atro candidum facies, farai il vino bianco dal rosso). Non sembra invece che conoscessero il vino secco. Le qualità correnti erano l’austerum (semisecco) e il mesum (medio). Catone c’informa che sapevano preparare anche vini abboccati partendo da vini aspri (De agr. CXVIII). I vini erano pesanti, acidi o amari e divenivano sciropposi e rancidi invecchiando.

La gradazione alcolica piuttosto forte (da 16 a 18 gradi) era ridotta a 5 o 6 unendo acqua per due terzi.

Le qualità del vino dipendevano dall’esposizione del vigneto, dalle caratteristiche della pianta e dal modo di coltivarla. Le vigne basse, quasi fino a terra nelle regioni esposte al vento, davano vini

mediocri. Le vigne impostate su supporti di legno producevano vini di migliore qualità e anche uva da tavola migliore. Al tempo di Plinio i vini italici famosi, come il Falerno o il Cecubo, erano ricavati

da vigne in arbusto (N.H. XVII, 199); è il tipo di vite che Columella chiamava arbustivum genus (De arboribus I, 47). Da parte sua Virgilio parla di viti che si allacciano al pioppo e all’olmo come in un abbraccio (Georg. II, 981). Sembra che ogni albero potesse reggere fino a dieci ceppi di vite.

[1] Per informazioni dettagliate sul vino, si veda l’opera sempre attuale di Billiard 1913

e il commentario di Jacques André all’edizione critica del libro XIV dell’Historia Naturalis

di Plinio il Vecchio; inoltre Salviat – Tchernia 2012.

[2] Plinio, N.H. XIV, 88: «Numae regis proxumi lex est: vino rogum ne respargito, quod

sanxisse illum propter inopiam rei nemo dubitet» («Di Numa, il re successivo [a Romolo], è la legge: non si sparga vino sul rogo, il che nessuno dubita che egli l’avesse sancito

per la scarsità del prodotto»).

[3] Questo è quanto ci tramanda Plinio (N.H. XIV, 89): «Non licebat id feminis Romae

bibere: invenimus inter exempla Egnati Maetenni uxorem, quod vinum bibisset e dolio,

interfectam fusti a marito, eumque caedis a Romulo absolutum» («Non era lecito alle

donne di Roma bere: abbiamo rinvenuto fra gli esempi che la moglie di Egnazio Metenno, per aver bevuto vino dal dolio, fu uccisa dal marito con un bastone, mentre lui venne da Romolo assolto dal delitto»).

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